Elenco di alcune testimonianze raccolte da Zornitta Vittorio riguardanti il periodo dell’occupazione Austroungarica a Lentiai, informazioni fornite a suo tempo da due testimoni importanti del periodo, Natalia Zornitta e l’ingegnere Francesco Vergerio.
– Natalia Zornitta, figlia dei titolari del panificio di Lentiai, Marco ed Emilia, aveva 11 anni nel 1917. Al momento della sconfitta di Caporetto era allieva del Maestro Giovanni Vergerio. Raccontό i suoi ricordi di quell’epoca al nipote e furono pubblicati a Lentiai nel 1994.
– L’ingegnere Francesco Vergerio non era presente a Lentiai durante l’invasione, ma, appena gli fu possibile, fece in loco una minuziosa e preziosissima inchiesta presso le personalità presenti a Lentiai nel 1917-18 Egli raccolse le testimonianze di Antonio Solagna (Sindaco di Lentiai dal 1920 al 1924), del Maestro Giovanni Vergerio e di diverse altre persone. Le pubblicό nel 1931 nella sua Storia, dove raccontό « gli stenti, i dolori ed i patimenti sofferti dagli abitanti del Comune di Lentiai in quel triste periodo dell’invasione in cui dovettero vivere sotto la dominazione nemica ».
Ascoltiamo le loro testimonianze :
N.Z. – Un sole caldo inondava la bottega del forno. « Hanno ucciso il figlio di Francesco Giuseppe », aveva detto Toni con un cenno di saluto mentre, la mano tesa sopra il banco, porgeva a Emilia il Gazzettino. Poi era scomparso fischiettando. Mia madre era rimasta muta ed allibita. Fissava incredula il titolo cubitale della prima pagina senza riuscire a proseguire la lettura oltre il riassunto del dramma. Quel nome strano di Sarajevo alimentava la nostra fantasia. Immaginavamo la scena, il corteo, la grande decapotabile nera, gli applausi della folla, l’emozione della coppia principesca. Lui, in divisa bianca, salutava fiducioso, la mano alzata, sotto un getto di fiori quando il suo sguardo sorridente s’era incrociato con quello allucinato dell’angelo sterminatore. « Come il re d’Italia Umberto Primo, anche Ferdinando e sua moglie non ebbero il tempo di tentare un gesto di difesa, di esprimere una preghiera » mormorό mia madre con un sospiro…
La mobilitazione aveva costretto molti giovani a partire sottole armi. Tutti speravano e credevano ancora nella saggezza dei governanti e nella loro dichiarazione di neutralità. L’anno seguente invece anche l’Italia fu colta dall’implacabile tormenta ed i suoi giovani arruolati partirono per il fronte. Mentre il treno s’allontanava, le mani tese verso Galliano e Cavallotti gesticolanti dal finestrino, mio padre piangeva, afflitto dal triste presentimento che non avrebbe più rivisto i miei due fratelli.
A fine ottobre, assieme ai miei compagni di quinta elementare, fummo molto sorpresi di vedere il nostro maestro Giovanni Vergerio, nascondersi, con gli occhi rossi di lacrime, dietro la lavagna. Quel giorno era arrivata a Lentiai la notizia della terribile sconfitta delle nostre truppe a Caporetto e dell’imminente invasione nemica. Ma se capivamo perché il Maestro piangesse, eravamo anche curiosi di vedere questi famosi nemici di cui tanto si parlava. Fummo accontentati l’11 Novembre, giorno anniversario della nascita del Re e festa nazionale, proprio mentre in chiesa si stava celebrando la S. Messa.
Il primo Austriaco che vidi entrό nella bottega, prese da un cestino un biscotto e me lo porse facendomi cenno di mangiarlo. Vedendo che lo mangiavo con piacere, senza nessun problema, si mangiό avidamente i biscotti rimanenti. La farina venne subito requisita dai soldati. Qualche giorno dopo, finita la farina, il panificio fu chiuso.
F.V. – Le prime truppe austro-tedesche, costituite da reparti d’assalto comandati da qualche ufficiale, comparvero a Lentiai alle ore 9 dell’11 Novembre 1917 provenienti da Vittorio. Entrarono nelle case facendosi dare cibarie, vino ed altro e svaligiarono i negozi. Erano diretti verso Feltre, ma avendo trovato a Cesana il ponte sul Piave distrutto il 10 Novembre, dai nostri in ritirata, presero la via di Marziai e cominciarono a riattare il ponte stesso onde poter disporre di un’altra comunicazione verso il Grappa per la via di Feltre.
Alloggiavano nelle case che trovavano vuote, oppure a forza si installavano in quelle abitate obbligando la gente a ritirarsi in un solo locale e a ceder loro tutte le altre camere. Occuparono subito il Municipio, le Scuole, il fabbricato della Società Operaia, la chiesa di S. Rocco, la casa Luzzato, i cui proprietari erano partiti. Tutte le truppe in quel primo periodo erano di passaggio continuamente, e si puό valutare che il loro numero fosse di un migliaio al giorno ; ciό durό per tutto Novembre e parte di Dicembre con maggiore o minore intensità a seconda dello svolgersi dei combattimenti del Grappa e del monte Tomba. Dipendevano da un Comando distrettuale che aveva sede a Busche nella villa Gaggia : altri comandi erano a Belluno, Mel e Feltre.
I raccolti nel 1917 erano stati abbondantissimi. In autunno, le cantine ed i granai si erano riempiti di vini, di cereali ed altro. Il nemico si appropriό di ogni cosa con prepotenza e violenza. I Germanici, specialmente, si dimostrarono feroci.
N.Z. – Il paese viveva delle magre riserve che era riuscito a procurarsi e nascondere. I soldati italiani, ritirandosi la vigilia dell’occupazione nemica, avevano abbandonato nel locale della Società Operaia un magazzino di viveri. La sera stessa, avvertiti dalle deflagrazioni della dinamite che faceva saltare il ponte di Cesana, chi era sprovvisto di viveri era accorso con la carriola alla Società Operaia per rifornirsi di vettovaglie. I più fortunati ritornarono a casa con qualche chilo di patate, qualche barattolo di fagioli e di carne in conserva, qualche pacco di riso o di pasta. Ognuno s’industriό a nascondere il magro bottino nei luoghi più impensabili e perfino scavando un buco nell’orto dove sotterrό, assieme ai viveri, anche gli oggetti di valore proteggendoli con la « caliera » del bucato disposta alla rovescia e ricoperta di terra. Adele, una delle sorelle di Marco, aveva vangato un pό di terra per seminare il granoturco. Con la figlia Teresina lo avevano sarchiato e diserbato. Erano rimaste soddisfatte del raccolto ed avevano nascosto il grano sotto le tavole del pavimento della camera. Ogni giorno Adele mandava la figlia a prenderne qualche manciata mentre lei stava di guardia sulla soglia. Poi era Teresina che montava la guardia, mentre la mamma lo macinava col mulinetto del caffé dopo averlo mondato e pestato nel mortaio. Appena faceva buio, accendevano il fuoco per cuocere la polenta. Mangiandola quasi di nascosto, come se l’avessero rubata, si sentivano privilegiate rispetto a tanti che non avevano niente e provavano un sentimento di colpevolezza.
F.V. – Avvenne anche qualche fatto di sangue. A Colderù fu, dai Tedeschi, ucciso con la baionetta un contadino rifiutatosi di consegnare un maiale. Alla moglie che si era interposta fracassarono un braccio. Alle Villaghe fu ammazzato, con un colpo di rivoltella, Zanivan Luigi perché aveva impedito ai soldati l’accesso in casa dove si trovavano due sue figlie. A Ronchena venne ucciso con una pistolettata un ragazzo di 13 anni, non si sa bene se deliberamente o per caso. I cattivi trattamenti furono numerosi fino agli ultimi di Gennaio 1918 quando i Germanici lasciarono il paese per accorrere sul fronte francese.
Rimasero gli Austriaci e gli Ungheresi, ed essendo Lentiai luogo di riposo, i reparti composti di circa 1500 uomini di fanteria, artiglieria e genio con carrette, vi si fermavano per 15 giorni dipendendo sempre dal Comando di Busche, dopodiché erano mandati al fronte e sostituiti da altre truppe. Per provvedere alla cura dei feriti provenienti dalle prime linee, furono adibiti ad ospedale i piani superiori del Municipio e le case di Luzzato, di Piccolotto Simeone e di Marcer Bortolo. Il piano terreno del Municipio, ove erano le Scuole, fu ridotto dapprima a scuderia, poi a dormitorio. La chiesa di S. Martino, situata accanto all’Arcipretale, fu utilizzata per lavanderia e per i bagni dei soldati ; quella di S. Rocco, per stalla e magazzino.
N.Z. – La soffitta del panificio serviva da dormitorio ad una ventina di militari. Non essendo isolata, era molto fredda, umida, sporca di caligine, ma i soldati si erano adattati e vi avevano installato una stufa che bruciava giorno e notte la legna del forno. Qualche tempo dopo, un ufficiale sanitario si installό nella camera sovrastante la bottega. Di tanto in tanto egli riceveva la visita di una infermiera della Croce Rossa. Per non essere disturbato dai soldati che salivano e scendevano le scale vociferando, li costrinse a trovarsi un altro alloggio. Le donne di casa si sentirono liberate da un incubo. Avevano subíto tanta paura d’essere molestate da uno di loro. Emilia si sentí liberata dalla minaccia che pesava sulle sue figlie, ma anche, e per un motivo diverso, da sé stessa : la giovane Banca Agricola, di cui suo marito era socio co-fondatore, aveva iniziato l’attività nel tinello del panificio. All’inizio dell’invasione il responsabile della banca aveva affidato ad Emilia l’incomodo incarico di nascondere i contanti. Dopo aver cucito le banconote in un lembo di tessuto, essa se lo era fasciato attorno alla vita ed era stata costretta a vivere, durante i lunghi mesi d’occupazione, con quel grosso disagio addosso oltre all’ansioso pensiero dei due figli al fronte ed alla difficoltà di nutrire la famiglia. Ma alla fine del conflitto ebbe la grande soddisfazione di poter restituire intatte 260.000 lire alla Banca.
Quasi ogni giorno mio padre entrava nella bottega deserta e restava per qualche istante dietro il banco nella semioscurità. Respirava l’odore impregnato nel legno degli scaffali. Li rivedeva pieni di pane frasco e dorato. Rivedeva mia madre e mia sorella intente a servire i clienti, a rispondere alle loro domande ed ai loro commenti.
Egli ripensava alla festa che, a sua insaputa, parenti ed amici gli avevano organizzato quando aveva ricevuto la medaglia d’oro all’Esposizione universale di Roma nel 1911 « Per gli alti meriti della sua produzione ». Ripensava a tutta quell’allegria, a quella gioia di vivere, alla passione per il suo mestiere ed ai suoi progetti d’una volta, e sentiva quel tempo ormai lontano, svanito per sempre. Pensava al nostro avvenire compromesso ed in particolare a quello del nostro fratellino Mario di soli 7 anni. Ormai, si diceva, più niente sarà come prima. Benché appena cinquantenne, si sentiva già vecchio, rassegnato. Allora correva giù per le scale fino al forno, perché nessuno potesse vedere i suoi occhi umidi di pianto.
F.V. – Fin dai primi tempi gli Austro-Tedeschi ordinarono un rigorosissimo censimento della popolazione che venne fatto nella Casa Canonica con l’aiuto di funzionari municipali. Era vietato muoversi dal paese, anche per recarsi nei luoghi vicini, senza uno speciale lascia-passare firmato dall’interessato, il quale doveva apporvi anche le sue impronte digitali.
Dopo i primi tempi vennero regolati i servizi pubblici nel seguente modo : La sede del Municipio, essendo i locali di questo occupati dalle truppe, venne trasportata nella Casa Canonica. A capo vi era il Sindaco Giuseppe Marcer coadiuvato dall’assessore Gelisio e da un Segretario provvisorio. Due o tre incaricati, fra i quali la guardia campestre ed il portalettere, dovevano trasmettere gli ordini del Comando alla popolazione tramite il Municipio. L’insegnamento scolastico si svolse nella Chiesa Parrocchiale, dopo la stagione invernale, e durό solo 4 mesi. Non ci furono esami. Poi riprese in Ottobre in una stanza privata. Gli insegnanti furono obbligati ad andare con i loro alunni per i boschi e per le campagne con un sacco a raccogliere foglie per i cavalli ed i muli militari. In compenso ricevevano per ogni sacco un quarto di pagnotta.
N.Z. – La sera, prima di coricarsi, la mia famiglia, seduta attorno alla tavola della cucina, recitava il Rosario. Le preghiere erano scandite dai colpi di cannone. La notte risuonavano ancora più forte, ancora più vicino, come un continuo laceramento nel cuore di ognuno. Pregavamo la Madonna perché proteggesse Galliano e Cavallotti, la supplicavamo di far terminare quella lotta disumana e fratricida. Pregavamo perché tornasse la pace. Durante la preghiera, mio padre non cessava di pensare a loro, soprattutto al più giovane ed irrequieto dei due. Lo immaginava nella fredda umidità della trincea, sporco, fradicio, affamato, come quando era tornato a piedi, senza permesso, da Conegliano dove effettuava il suo apprendistato. Mio padre si consolava pensando che aveva fatto bene, quella volta, a non picchiarlo. Ora la sua vita era in costante pericolo, e se il destino glielo avesse preso cosí giovane, non si sarebbe mai perdonato di averlo fatto soffrire con le sue mani.
F.V. – Le requisizioni avvenivano frequentemente e si estendevano, oltre alle vettovaglie (grano, farina, vino, salami, formaggi, ecc.) agli oggetti in rame, alla biancheria e ad ogni cosa di lana (Materassi, coperte ecc.) Ai requisiti si lasciavano piccolissime razioni e dei buoni in base ai quali potessero richiedere qualche indenizzo a guerra finita. Il cambio quindicinale delle truppe, quasi sempre comandate da un colonello e vari ufficiali, era disastroso, poiché i reprti arrivavano affamati e per sfamarsi mangiavano il cibo necessario alla gente.
Non vennero ritirate le monete italiane, ma furono messi in circolazione prima Marchi e Corone, ed in seguito i buoni della Cassa Veneta dei Prestiti.
Le campane vennero asportate sin dai primi tempi. La copertura in rame del campanile fu tolta in febbraio e sostituita da un tetto in legno. Fu requisito tutto il bestiame e fu lasciata soltanto qualche mucca per fornire il latte ai bambini.
N.Z. – I soldati arrivavano d’improvviso di casa in casa svuotando le stalle prima ancora che i contadini si rendessero conto della loro disgrazia. Dalla soglia della porta, Teresina aveva visto arrivare le prime bestie ed aveva chiamato sua madre. Guardavano stupite la lunga mandria che s’inoltrava verso Busche. Una mucca s’era persa nel cortile di Domenico. Dopo un primo momento di esitazione, costui la rinchiuse nella stalla. Aiutato da alcune donne la ammazzό e di nascosto ne distribuí la carne a tutto il vicinato.
Toni Buaze era chiamato cosí perché, fin da bambino, era sempre stato il più svelto a raccogliere lo sterco delle mucche quando, mattina e sera, si recavano all’abbeveratoio pubblico. Con la paletta ne riempiva un secchio e lo portava soddisfatto a sua mamma, poi ritornava a riempirlo. Con lo sterco sua mamma fertilizzava l’orto dal quale, con il pollaio e qualche coniglio, otteneva la maggior parte del loro sostentamento.
Ormai Toni era diventato vecchio ; rimasto solo, viveva come un eremita. Essendo sordo, la gente lo aveva quasi dimenticato. Le rare volte in cui si decideva ad andare in piazza, c’era chi si stupiva che fosse ancora vivo. Essendo molto frugale, aveva imparato tanti espedienti per tirare avanti. Catturava gli uccelli con una rete inclinata sostenuta da un bastone legato ad uno spago. Spargeva sotto la rete qualche briciola di polenta. Aspettava immobile, a debita distanza, pronto a tirare lo spago appena qualche uccellino si accostava per nutrirsi. Quando gli uccelli si fecero rari, Toni mangiό, uno alla volta, tutti i gatti della contrada. Li conosceva per nome e li adescava con l’invito delle labbra e la promessa d’una mano tesa. Essendo anche loro affamati si avvicinavano fiduciosi. Li accarezzava a lungo, palpandone le ossa, ma la sua fame era più grande della loro. Alla fine fu costretto a tendere trappole ad animali selvatici e meno pregiati. Non badava alla qualità della carne, si accontentava di prendere qualcosa da mettere sotto i denti. Mangiava lentamente perché durasse di più.
F.V. – In Marzo si incominciό a patire la vera fame. Le riserve dei vecchi alimenti erano esaurite, le importazioni erano bloccate, i tentativi fatti per sottrarre, nascondendola, qualche provvista alla rapacità dei nemici, non erano riusciti a salvare quasi niente.
Il Comando emanό dei proclami invitando tutti a lavorare la terra, se si voleva vivere. I contadini non mancarono di arare, seminare e coltivare. Ma al momento del raccolto, ebbero l’amarezza di farselo quasi interamente requisire.
La situazione era ancora più grave per la presenza nel Comune di numerosi profughi italiani provenienti da Quero, Alano, Vas, Caorera… Cioè dai paesi vicini al Piave ed al Grappa che, minacciati dal cannone, erano stati abbandonati dagli abitanti. Anche a loro dovevasi dare vitto ed alloggio oltre ai militari già insediatisi in tutte le abitazioni.
I mesi da Aprile a Luglio furono i più terribili. Il Comando aveva fatto venire dall’Ungheria i semi delle patate. Erano stati distribuiti ai contadini che li avevano seminati. Ai primi di luglio maturavano le prime patate. Si sarebbe dovuto stare un po’ meglio, ma i soldati di notte erano andati a raccoglierle. La delusione fu grande tanto più che già in primavera, di molte patate avevano rubato il seme appena interrato. Le cose andarono dunque di male in peggio.
La mortalità della popolazione per la fame e malattie d’esaurimento raggiunse proporzioni inaudite : basti dire che da una media di 45 morti annue in tempi normali, si sorpassarono le 200 !
La gente, costretta a cibarsi soltanto di erbe di campo cotte, era esaurita. Il pane non esisteva, e se qualcuno ne voleva, doveva recarsi al Comando ed offrire biancheria, lana, o vestiario per ricevere in cambio una pagnotta di pane spesso immangiabile.
A Marziai la mortalità per fame fu ancora più elevata. Per la sua vicinanza al fronte, il paese ospitava molta truppa. I soldati, anche loro affamati, non lasciavano nemmeno le briciole alla popolazione.
N.Z. – I nemici minacciavano di bruciare i banchi della scuola per riscaldare il loro ospedale. Mio padre, forte della sua esperienza di giudice conciliatore, ottenne da loro che risparmiassero i banchi in cambio della legna del forno che gli rimaneva. I soldati vennero a prendersi la legna, ma questa non bastό e finirono col bruciare anche i banchi. Nel frattempo avevano portato via dalle case tutto ciό che poteva essere trasformato in materiale di guerra, gli utensili agricoli ed artigianali in ferro, le pentole i secchi e gli utensili in rame.
Senza le nostre campane ci eravamo sentiti senza voce e profanati. Senza la cupola di cui eravamo tanto fieri ci sentivamo mutilati noi stessi ed in preda a un’indicibile pena. Ogni volta che guardavo il campanile mi veniva il crepacuore pensando a quanto era nobile, bello, carico di storia. Durante 5 secoli era stato il testimone, l’angelo guardiano, il protettore, l’annunciatore e l’animatore della vita del paese. Lo avevano saccheggiato, mutilato ed umiliato. Con lui furono violentati il nostro simbolo, il nostro passato, la nostra presenza, la nostra vita.
Prelevarono il fieno e la paglia dai fienili per nutrire i loro muli e cavalli. Quando non ce n’era più, lasciarono le loro bestie vagare per la campagna.
Passarono un’altra volta per le case e frugarono tutte le stanze. Costrinsero i capi-famiglia ad accompagnarli nelle camere. Si fecero aprire armadi e comό. Presero tutte le lenzuola per medicare i feriti. Le gettavano dalle finestre e due di loro le sistemavano in un carro. Finemente ricamate a mano, come era d’uso a quei tempi, quelle lenzuola erano costate moltissime ore di paziente lavoro. Per molte donne, erano la sola cosa interamente di loro proprietà. Rappresentavano il ricordo del tempo felice in cui le avevano ricamate. Vederle rapinare in quel modo era per loro uno strazio.
Mia nonna, Speranza Pasa, era e sarà la maestra di ricamo dei bambini fintantoché le Suore Giuseppine arriveranno a Lentiai quando sarà inaugurato l’Asilo nel 1922. Non potendo accettare lo scempio dei soldati, corse in Municipio e chiese di essere ricevuta dal Comandante.
– Per quale motivo ? Chiese la guardia stupita.
– Perché voglio il passaporto per andare in Italia!
F.V. – Nella primavera, gli Austriaci si prepararono alla grande offensiva contro di noi e con ostentazione e baldanza dichiaravano di essere certi della vittoria. Comunicavano alla gente il nome delle Caserme a Treviso, Vicenza, Padova, dove sarebbero andati ad alloggiare appena superato il Piave. Ma nelle epiche giornate dal 16 al 24 Giugno, favorito dalla piena del fiume che distrusse tutti i ponti costruiti dagli Austriaci per passare sulla sponda destra, il valore dei nostri sconfisse il nemico. Questi aveva impiegato nella battaglia tutte le sue forze e dovette battere in ritirata dopo aver perso circa 200.000 uomini.
Gli Austriaci ritornarono a Lentiai confusi e sfiduciati. Essendo svanita ogni speranza di successo si dimostrarono più umani e meno prepotenti verso la popolazione. Quest’ultima, se aveva il corpo tormentato dalle sofferenze, sentiva rinforzarsi nell’animo la fiducia nella vittoria.
Incursioni arditissime vennero fatte nel cielo di Lentiai dai nostri aereoplani. Ci furono anche combattimenti aerei con esito quasi sempre favorevole a noi per la gioia degli abitanti. Durante tutto il periodo dell’invasione gli stessi nostri aereoplani non mancarono di lanciare sovente dei volantini d’incoraggiamento alla popolazione.
Durante l’estate, il Comando Austriaco faceva vendere « La Gazzatta del Veneto » un giornale stampato a Udine. Serviva per diffondere notizie favorevoli all’Austria sempre vincitrice e sfavorevoli all’Italia sempre ed ovunque sconfitta, ma nessuno ci credeva. Gli stessi Austriaci vedevano ormai prossima la loro fine. Invano i Capi cercavano di rialzare il morale delle truppe con incessanti concerti di musiche militari e con discorsi incoraggianti di Sacerdoti ed altre loro Autorità.
N.Z. – La mia famiglia ed altre di Lentiai, trovarono aiuto, in quel periodo cosí nero e triste, nelle frazioni più povere e lontane della parrocchia, come i Boschi e Cordellon. Lì dentro vivevano parecchie famiglie ancorate ad una economia autarchica, basata sull’allevamento del maiale, di qualche capo di bestiame da latte e da lavoro, di qualche pecora per la lana, di un pollaio per le uova e qualche pollo che barattavano prima dell’invasione nelle botteghe di Lentiai con il sale, lo zucchero, il caffé, il tabacco… Oltre a qualche prodotto di prima necessità come le patate ed i fagioli, si coltivava in questa angusta valle anche qualche piccolo campo di granoturco. Parecchie di queste famiglie erano clienti del panificio al quale avevano fornito qualche carretta di legname di faggio. Mio padre aveva cominciato a frequentare le case sparse lungo la strada dei Boschi. Ci andava con mio fratello Beppi. A forza di cercare e di chiedere, riuscivano a portare a casa, nascosto sotto la giacca, qualcosa di commestibile per sfamare la famiglia.
Malgrado gli stenti, la malnutrizione, l’avvilimento per la mancanza di notizie dei figli in guerra, l’umiliazione di vedersi continuamente derubata e spogliata, malgrado la forzata promisquità con l’occupante, malgrado il suo profondo logoramento fisico e morale, la popolazione resisteva, sopravviveva. Questo fu possibile non soltanto per merito della sua secolare probità, ingegnosità, attitudine al sacrificio e dell’assuefazione al rigore e alla dura vita d’un paese di montagna, ma anche e soprattutto per un’istintiva e tenace speranza via via rinforzatasi fino a diventare un’intima certezza che la guerra sarebbe presto terminata. Di giorno in giorno il nemico perdeva forza e sicurezza. S’era stremato, ferito, decimato, sfiduciato, piegato. Lentiai non viveva più che nell’attesa d’esser liberata e di riabbracciare i suoi soldati.
F.V. – In Ottobre, la nostra offensiva fu coronata da fulgida e definitiva Vittoria conclusasi con l’armistizio del 4 Novembre.
Nella notte dal 26 al 27 Ottobre, le truppe italiane ripassarono il Piave superando l’accanita resistenza del nemico e la travolgente furia delle acque. Fecero 630.000 prigionieri e conquistarono un immenso bottino di guerra costringendo il nemico a chiedere l’armistizio.
I nostri soldati giunsero a Lentiai alle ore 22 del 31 Ottobre 1918 da Valdobbiadene superando il Monte Cesen ed il Garda. Altri soldati arrivarono per la strada di Marziai. Erano il 27° Reparto d’Assalto ed il Battaglione Alpini Val Tirano. Il giorno seguente arrivό il 5° Reggimento d’Artiglieria da Montagna. Il paese fu pieno di soldati accolti con tale entusiasmo da non potersi descrivere. La popolazione vedeva nei suoi liberatori, oltre il trionfo della Patria, la fine di tante miserie e di tanti dolori. Il Generale Comandante la Divisione pose la sua sede a Ronchena. Gli ultimi Austriaci, la sera stessa del 31 Ottobre, poco prima dell’arrivo dei nostri, lasciarono il paese. Il grosso della truppa austriaca se n’era già andato da qualche giorno sgombrando i Magazzini ed abbandonando oggetti lungo le strade. Le ultime truppe sbandate, rimaste senza comando, andavano per le case sperando di trovare ancora qualcosa da prendere. Nelle abitazioni perό non c’era più nulla, talvolta nemmeno i mobili.
N.Z. – Lo sfinimento e la febbre avevano costretto mio padre a letto. Si trattava di una banale influenza e la mamma lo curava con delle erbe procurate da un amico. In tempo normale la febbre sarebbe guarita con qualche giorno di riposo, invece attecchí e s’aggravό. Mio padre era ancora a letto quando, a fine Ottobre, due battaglioni di Alpini scendendo da Mariech, arrivarono sopra Canai. A Stabie c’era un campo di prigionieri italiani sorvegliati da un distaccamento austriaco. Questo si accorse dell’arrivo dei nostri soldati e lo segnalό ad una batteria di cannoni installata a Busche. Essa incominciό a sparare aggiustando il tiro sul campanile di Stabie. Il giovane Dominatore, di nove anni, stava attraversando la piazza con sua mamma, quando un obice cadde con un’esplosione a pochi metri. Egli sfuggì a sua madre, che correva terrorizzata verso casa, per avvicinarsi al buco formato dal proiettile. Il bombardamento si protrasse per un lungo momento sul piccolo paese causando danni e spargendo il panico fra gli abitanti rifugiati nelle cantine e nei boschi. Gli alpini piazzarono i loro pezzi di artiglieria nella località « Le Fosse », sopra Canai, ed incrociarono il tiro con i nemici. Prima di ridurli al silenzio, un obice cadde a pochi metri dalla nostra postazione facendo due morti e diversi feriti. L’obice fu eretto a cippo nel luogo stesso dove avvenne quest’ultimo sacrificio degli alpini. Una targhetta, circondata da una corona, portava incisi i nomi dei due giovani caduti. Vinta l’ultima resistenza, i nostri soldati liberarono Stabie. La sera stessa del 31 Ottobre, giunsero a Lentiai guidati da Gio Comel, di Centore, e da Livio Zasio, un giovane ufficiale di Busche. Avanzavano cautamente nella notte per non farsi sorprendere da nemici in agguato. « Oh, gli Italiani ! » gridό incredula Marina. « Si, si, siamo italiani, ma stai zitta » rispose Livio, mentre faceva cenno agli altri di seguirlo. Marina era rimasta di stucco, folgorata dalla gioiosa sorpresa. Aveva il marito sotto le armi e si concretizzava d’improvviso per lei la speranza di poterlo presto riabbracciare. La notizia della presenza dei soldati italiani si diffuse in un lampo nel paese da dove i nemici si erano poco prima allontanati abbandonando i feriti, gli ammalati e chi si era nascosto per arrendersi. Anche mio padre, al rumore della folla in piazza, s’era alzato dal letto ed aveva aperto la finestra. Alla vista delle uniformi italiane, aveva dimenticato la sua febbre. Credendosi guarito era corso giù in mezzo agli altri nella speranza di incontrarvi i suoi figli. Cavallotti arrivό invece da Quero due giorni dopo e trovό suo padre ammalato d’influenza spagnola. Questa epidemia era esplosa subito dopo l’arrivo delle nostre truppe. In poco tempo fece 29 vittime solo nel piccolo borgo di Colderù. Anch’io e mio padre fummo colpiti dall’epidemia e costretti all’isolamento fra la pena e la paura di mia mamma, di Ester, Beppi, Mario e Cavallotti. Galliano, ferito alla testa, aveva temuto di perdere la vista ed era stato mandato prima all’ospedale di Padova e poi a quello di Barletta. Due mesi dopo, quando ritornό a casa, non ebbe il tempo di riabbracciare suo padre. Era deceduto il 18 novembre, subito sepolto e ricopero di calce, in una fossa comune del vecchio cimitero, assieme a tutti coloro che, in quei giorni, morivano di epidemia. Sebbene fin dagli inizi, il mio stato fosse considerato ancora più grave di quello di mio padre, riuscii a salvarmi grazie all’intervento di un tenente medico. Mi curό con la sola medicina disponibile : il chinino. Nei giorni più critici della malattia, chiesi più volte se avessero rimesso le campane sul campanile perché mi sembrava di sentirle suonare continuamente.
F.V. – Le truppe italiane rimasero parecchi giorni a Lentiai. Sistemarono i servizi pubblici. Misero in ordine il Municipio e le Scuole purtroppo senza mobili perché adoperati dagli Austriaci per far fuoco assieme a tutte le carte dell’Archivio Comunale, quelle dell’antica Contea di Cesana ed a circa 500 volumi della Biblioteca popolare.
Dagli stessi Austriaci furono distrutti un cinquecentesco caminetto in marmo ed una misura in pietra per grano (tributo) con lo stemma dei Conti di Cesana e la data MD, che erano stati trasportati e conservati in Municipio, dopo che il castello era stato demolito.
Anche l’antica chiesa di S. Bernardo a Cesana venne devastata e ridotta a miserevole stato. La Chiesa Parrocchiale invece non venne danneggiata e niente vi fu requisito o derubato. Ciό si deve anche all’energia con cui l’Arciprete Cav. Don Agostino Fiorot seppe difendere la proprietà ecclesiastica contro qualsiasi manomissione. Gli Austriaci si limitarono ad aprire le tombe tanto nella Chiesa Parrocchiale quanto in quella di S.Bernardo di Cesana allo scopo di spogliare le salme degli oggetti di valore che potessero avere, oppure per verificare se dentro gli avelli fossero stati nascosti dagli abitanti oggetti per sottrarli alle requisizioni, ma nulla fu trovato. Inoltre fecero levare dagli altari i dipinti di maggior valore per fotografarli alla luce naturale, fuori del tempio, forse per farli stimare a Vienna ed eventualmente spedirli colà in seguito: per fortuna questa ipotesi non si realizzό.
La linea ferroviaria funzionό durante l’invasione solo per il servizio militare con qualche locomotiva e con i pochi vagoni che gli Italiani in ritirata non erano riusciti a portar via. La ferrovia fu riaperta al servizio pubblico nella primavera 1919, dopo la ricostruzione dei ponti ed altre opere distrutte dalle artiglierie.
Nella guerra contro l’Austria dal 1915 al 1918, il Comune di Lentiai, come in tutte le precedenti guerre per l’indipendenza d’Italia, non fu parco a versare il suo sangue per la Patria.
I suoi figli caduti sui campi di battaglia sono 84, cosi suddivisi : Lentiai = 20, Boschi = 9, Colderù = 9, Cesana = 7, Villapiana = 9, Ronchena = 12, Canai = 3, Stabie = 13, Marziai = 2
Vada a loro il nostro riconoscente ricordo e siano le loro gesta di esempio alle nuove generazioni e di stimolo alle imprese nobili e generose.
Nelle operazioni di guerra si distinse anche il Dott. Ottorino Cristini di Lentiai. Prestando servizio come Capitano Medico al fronte, fu decorato al valore militare nel fatto d’armi al Dosso Faiti nei giorni 3 e 4 giugno 1917. Egli si era già reso benemerito per l’opera zelante prestata nel terremoto di Messina nel 1908 ed in occasione del colera a Chioggia ed a Favaro nel 1911, dimostrandosi sempre pronto a rispondere agli appelli della Patria nei giorni delle calamità. Durante il critico periodo dell’invasione in cui la salute pubblica fu messa a durissima prova, suo padre Dott. Giovanni Cristini, sebbene già vecchio, moltiplicό la sua attività per portare aiuto e lenire le sofferenze. In segno di riconoscenza, le donne di Lentiai vollero offrirgli una medaglia d’oro di benemerenza insieme al Dott. Vendrami Domenico di Villa di Villa ed al Dott. Del Zotto Giuseppe di Mel che pure intervennero attivamente in quelle tristi circostanze.